Ieri mattina gli uccelli stavano migrando a sud. Erano tanti, tutti neri nel rosato di un cielo che si era appena svegliato. Fuori dalla stazione c'era tanta gente, come sempre. Come ogni mattina avevamo tutti cominciato le nostre corse. Non c'รจ un motivo preciso per cui corriamo. Alle 7.10 nessuno รจ in ritardo. Perรฒ noi corriamo con la musica alta nelle orecchie, a passi svelti e ampi, prendendo e dando spallate, senza guardarci. Ironico che quella mattina mi fossi scordata le cuffiette a casa. Forse anche tutti gli altri le avevano scordate. O forse il fruscio degli uccelli che volavano sulle nostre teste aveva abbassato il volume a tutti. Alzammo la testa e ci fermammo, anche in mezzo alla strada. Anche gli uccelli erano in gruppo come noi ma loro si sentivano, si muovevano come se ognuno fosse l'altro. Quando volarono via dal nostro sguardo tutti riabbassammo la testa. Ci guardammo; stupiti. Nessuno aveva il coraggio di ricominciare a camminare. Guardai un'ultima volta il cielo ormai quasi azzurro. Sorrisi ad uomo che si era incantato nel guardare la natura che rendeva ridicolo il giornale nella sua mano. Ripresi a camminare, lentamente, come se ogni passo lasciasse qualcosa di importante dietro di se. Pensai a quel ragazzo che sulla metro si era accorto di essersi infilato due calzini diversi. O a quella ragazza che ripeteva Manzoni scandendo le parole con le labbra. Ogni passo divenne un salto -mi perdoni Parmenide- dal non essere all'essere. Un essere dell'uomo che aveva smesso di leggere il giornale per ascoltare il suono della mattina, dei testimoni di Geova davanti alla stazione che posarono la Bibbia per guardare meglio le nuvole, dell'egiziano che aprendo le serrande della sua pizzeria si riconobbe nel viaggio degli uccelli verso un luogo piรน accogliente. Il cielo ormai era solo azzurro e io avevo scordato le cuffiette a casa. Ogni mattina degli uccelli dovrebbero migrare a sud.
Federica Greco